ciclo di incontri - Marzo 1999
Quaderno n. 73
Dopo Auschwitz. Domande sulla letteratura, la storia, la filosofia, la teologia
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La Shoah nella storia e nella storiografia


Giovanni Miccoli


Difficile è raccontare e parlare della Shoah: un racconto, di sua natura, si snoda piano in una coerente successione di fatti nei quali normalmente, anche quando si parla di guerre e d’orrori, vita e morte, gioie e dolori, pietà e crudeltà si mescolano e s’intrecciano.

Parlare della Shoah ci dovrebbe portare in un’altra dimensione, perché solo di morte e di prospettiva di morte e di volontà di dare la morte in primo luogo si tratta: sterminare un intero complesso umano identificato negli ebrei e in coloro che i nazisti, con i loro criteri, identificavano come tali, tutti, dai bambini appena nati ai vecchi. La difficoltà del racconto storico sta nel fatto che tradizionalmente è insito in esso, nel suo stesso svolgersi discorsivo, la tendenza di rendere plausibile, in qualche modo accettabile, per la volontà stessa di “spiegare”, ciò che appare, da un altro punto di vista, del tutto implausibile, inimmaginabile, incredibile. Tuttavia la Shoah è un fatto accaduto, per questo bisogna parlarne.   Tanto più quanto impensabile, incredibile, inimmaginabile, enorme una tale vicenda risulta.

L’intervento, diviso in due parti, sarà molto schematico e alcuni aspetti saranno appena sfiorati.

Nella prima parte ricorderò brevemente i diversi momenti e modi di realizzazione della Shoah, nelle condizioni create dalla seconda guerra mondiale, per risalire poi alle premesse, più o meno vicine, che ne hanno nutrito l’idea e ne hanno in vario modo predisposto e permesso l’attuazione.

Nella seconda parte mostrerò sinteticamente ciò che è stato ed è la memoria e la storiografia della Shoah e insieme i problemi, i dubbi, le difficoltà che sono loro propri, problemi, dubbi e difficoltà che mettono in discussione alcuni criteri fondamentali del lavoro storiografico, e il modo insieme con cui è pensato e inteso sia dagli addetti ai lavori, sia dal pubblico più vasto cui tali addetti si rivolgono.

La decisione di uccidere tutti gli ebrei, sia quelli già concentrati in Polonia, sia deportandoli là dalla Germania e dagli altri paesi Europei occupati e controllati dai tedeschi, maturò e prese forma nell’ambito dell’aggressione alla Russia, tra l’estate e l’autunno- inverno del 1941.

L’idea di rendere la Germania judenrein (ripulita dagli ebrei) come all’indomani delle prime strepitose vittorie tedesche come di rendere judenrein l’intera area europea caduta sotto il controllo tedesco, di far sparire (verschwinden, come disse Hans Frank) gli ebrei dall’Europa, è precedente all’attacco alla Russia, è parte integrante del programma nazista, del suo antisemitismo, ma non si   pensava ancora fosse possibile l’uccisione sistematica e indiscriminata di tutti gli ebrei. Si aveva in mente la loro concentrazione e ghetizzazione prima, la loro deportazione poi, (per un certo tempo, dopo la vittoria sulla Francia, si pensò al Madagascar). Era dato per scontato ed era considerato un particolare del tutto irrilevante che una tale operazione comportasse la morte di molti. Già nel corso delle operazioni belliche in Polonia e poi nel primo anno d’occupazione, non erano mancati assassini d’interi gruppi d’ebrei, come anche scene selvagge nei primi trasporti che nel mese di dicembre erano partiti da Vienna, dalla Boemi e dai territori polacchi annessi al Reich, poi momentaneamente sospesi, che erano indirizzati verso quella parte centrale della Polonia costituita in governatorato generale sotto il comando di Hans Frank. Più in generale si può aggiungere che nell’ideologia razzista del nazismo e nell’immagine che offrivano degli ebrei, come nella legislazione stessa e nella prassi che n’era seguita, vi era già implicita una cupa carica di morte; non vi era però ancora il programma di uccidere tutti.

L’aggressione alla Russia creò condizioni nuove e inaugurò insieme una prassi d’omicidio sistematico, che si tradusse rapidamente nel programma d’eliminazione totale di tutti gli ebrei europei.

Una serie di fatti sono assolutamente lampanti: attraverso il progressivo affermarsi e realizzarsi di una tale prospettiva, mostrano con chiarezza che la determinazione di realizzare la soluzione finale del problema ebraico, attraverso lo sterminio, si concretò tra l’agosto e il novembre del 1941.Cominciarono Einsatzgrupp, truppe scelte delle SS che seguivano l’avanzata della Wehrmacht col compito di ripulire le retrovie. Agli inizi di giugno, poco prima dell’attacco, Hitler aveva emanato il Komissardefel?, l’ordine di eliminare tutti i commissari politici dell’esercito e dell’apparato sovietico caduti in mano dei tedeschi. Fin dall ’inizio l’operazione Barbarossa , com’è chiamato l’attacco alla Russia, si caratterizzò come una guerra particolare : di sterminio ideologico e di schiavizzazione. All’inizio, in quel contesto, gli ebrei restano marginali ,sono ammazzati anch’essi , ma gli assassini non li riguardano in prevalenza , inoltre sono ammazzati soltanto uomini. Con la seconda metà d’agosto. I massacri degli Einsatzgrupp segnano un netto mutamento sia quantitativo sia qualitativo, (ci hanno lasciato rapporti scritti della loro attività che, com’è stato scritto , sono tra le più sinistre vestigia scritte del III Reich) .Nel mese di luglio la Einzatokomm 3, che opera in Lituania, massacra 4239 ebrei di cui 135 donne, ma in agosto gli ebrei sono già 37186 ,di cui 32400 dopo il 15 agosto, per raggiungere poi un altro aumento in settembre , 56459di cui 26243 donne e 15112 bambini. Tali fatti ,come del resto esplicite testimonianze del dopoguerra, suggeriscono l’idea dell’esistenza di un ordine di passare al massacro indiscriminato degli ebrei, ordine che culminerà nel massacro di Babi-Yar,presso Kiev, dove tra il 29 e il 30 settembre furono uccisi 33771 ebrei. Di tali massacri circola ampiamente voce in Germania, sono registrati nei diari , ne parlano e ne scrivono i soldati che tornano dal fronte; è poi significativo che mons. Berning, vescovo di Osnabruchk, può scrivere nei suoi appunti “esiste chiaramente un piano di eliminare completamente gli ebrei” e poi aggiunge” Che cosa può succedere? Possono i vescovi darne pubblica denuncia dal pulpito?” Nel giugno del ’42 monsignor Grober scrive a Pio XII: “La teoria e la prassi del nazionalsocialismo si caratterizza non soltanto come un antisemitismo il più radicale ,che mira all’annientamento dell ‘ ebraismo nella sua cultura, ma come un antisemitismo che mira all’annientamento anche nei suoi appartenenti. La questione è ormai in mano della polizia di sicurezza.

Il 3i luglio del ’41 Göring scriverà a Reihand Heydrich “…di prendere tutte le iniziative opportune e di presentare le proposte pi utili per conseguire la” Endlösung der Judenfrage”.

Appare del tutto fuori luogo la discussione su come ,chi, dove , quando è stato ordinato, è chiaro che l’ordine non poteva che partire dalle più alte autorità del Reich ,cioè dal Fhürer ,anche se ci fu un grandissimo coinvolgimento di autorità alte medie e basse.

I mesi successivi un susseguirsi di fatti mostrano che si è passati all’attuazione piena, ma cercando di evitare almeno in parte le scene pubbliche di massacri che avevano caratterizzato l’opera degli Einsazgrupp; non si riuscirà mai del tutto: l’evacuazione dei villaggi che proseguirà lungo tutto il 1942comportano spesso scene selvagge, ammazzamenti diretti; si cerca quindi di adottare un metodo diverso, la via dei campi.

Si può seguire una serie di tali fatti. Gli ebrei tedeschi dal settembre del 1941 sono tenuti a portare il segno distintivo, e dall’ottobre sono destinati alla deportazione verso est. In quello stesso mese Heinrich Lohse ,Gauleiter dell’Ostland (antichi territori baltici) è autorizzato per scritto ad eliminare tutti gli ebrei inabili al lavoro, sia quelli trovati sul posto sia quelli deportati, utilizzando la gassazione con CO nei camion concepiti da Victor Brack, in occasione dell’operazione T4 ,l’operazione dell’eliminazione degli handicappati e ammalati mentali che aveva avuto luogo dal settembre del ’39 alla primavera del ’41,operazione che si può considerare il preambolo tecnico della Shoah .

Tra novembre e dicembre è avviata la costruzione di Belzn. e   del complesso industriale e di sterminio di Auschwitz -Bikenau ,alla fine di novembre i primi convogli di ebrei tedeschi sono inviati a Riga ,agli inizi di dicembre, poi, avvengono le prime gassazioni tramite i camion attrezzati a Chelmno come conseguenza della prima parziale evacuazione del ghetto di Lodz . Il 20 gennaio la conferenza di Wannzer, che era stata rinviata dal dicembre in seguito agli interventi in guerra degli Stati Uniti , ha il compito di coinvolgere e organizzare nell’opera di stermino l’impegno dei vari uffici ministeriali. Con la primavera–estate del ‘42 i quattro campi (Chelmno, Treblinca, Belzn, ……………..) destinati esclusivamente allo sterminio funzionano a pieno ritmo. Vi affluiscono gli ebrei raccolti tra il ’40 e il ’41 nei grandi ghetti delle città polacche o annesse alla Germania (Lodz, Cracovia , Lublino , Leopoli), e con il 22 luglio del ‘42 inizia lo svuotamento del più grande ghetto d’Europa in quel periodo, il ghetto di Varsavia .

Accanto a questi quattro campi che sono destinati soltanto ad uccidere, dove permangono soltanto stabilmente le guardie e i “sonderkomando” addetti all’opera dei forni, funzionano due altri campi che sono, di lavoro e di sterminio, Auschwizt e Majdemek.

La circolare del 30 aprile del 1942 di Oswald Pohl ,da poco preposto al dipartimento economico delle SS, dispone in modo preciso l’impiego dei detenuti nella produzione bellica, ne conseguiva l’eliminazione immediata degli inabili, mentre per gli altri era previsto l’annientamento attraverso il lavoro.

Nell’estate del ’42 iniziano le deportazioni d’occidente ,direttamente verso i campi ed è questa la stagione delle grandi razzie in Francia, Olanda, Belgio, Slovacchia, ecc. Il 4 luglio del ’42 c’è la prima selezione ad Auschwizt di un convoglio di ebrei Slovacchi e l’ultima avverrà il 3 novembre del 1944. Dalla primavera del ’42 all’ autunno del ’44 la macchina lavorerà a pieno ritmo. Poi si fermerà, anche se continueranno uccisioni, esecuzioni sommarie, e altissimo sarà il numero dei morti durante l’evacuazione dei campi per sfuggire all’avanzata Russa. L’esito complessivo delle deportazioni sarà dai cinque ai sei milioni d’ebrei sterminati, interamente distrutto l’ebraismo polacco e la cultura Yddish, duramente colpite le comunità ebraiche della Russia, dell’Europa centrale e occidentale e della penisola Balcanica.

Nella guerra dunque la Shoah prese corpo, le rese possibili una duplice condizione, da una parte il largo controllo nazista sull’Europa, dall’altra il venire meno della prospettiva di una rapida sconfitta della Russia, che avrebbe aperto alla Germania gli immensi territori al di qua e di là degli Urali per quella prospettiva di deportazione schiava che doveva sancire la dominazione dell’Herrendfol, del popolo dominatore.

Goebbels scrisse chiaramente nel suo diario del 27 marzo 1942 che il contesto bellico avrebbe permesso e sollecitato tale “soluzione” ,”Verso gli ebrei viene eseguito un castigo che è a dire il vero barbarico, che essi però hanno pienamente meritato.La profezia che il Führer aveva loro annunziato nel caso dello scoppio di una nuova guerra mondiale, fatto nel discorso del 30 gennaio del ’39,comincia a realizzarsi nel modo più terribile. In queste cose si può lasciar non sussistere nessun sentimentalismo…….Si tratta di una lotta per la vita o per la morte tra la razza ariana e il bacillo giudaico. Nessun altro governo, nessun altro regime poteva trovare la forza di risolvere tale questione in termini generali. Anche qui il Führer è l’irremovibile propugnatore e interprete di una soluzione radicale che è offerta dalle circostanze e che perciò appare inevitabile. Grazie a Dio abbiamo ora durante la guerra una serie di possibilità che un tempo ci erano precluse: dobbiamo sfruttarle. I ghetti del governatorato generale che stanno rendendosi liberi verranno ora riempiti dagli ebrei deportati dal Reich e qui dopo un certo tempo il processo dovrà ripetersi :l’ebraismo non ha proprio di che ridere……….”

Stabilito il peso di tali circostanze, l’insperata opportunità che venne ad offrire, si possono aggiungere tuttavia tutta una serie d’altri rilievi e considerazioni: in primo luogo il fatto che questo punto d’arrivo ha i suoi fondamentali e necessari presupposti da una parte sull’ideologia e sulla prassi dei nazisti verso gli ebrei, nella martellante campagna antisemita e nelle misure d’emarginazione, degradazione ed espulsione sociale che l’ aveva accompagnate nel corso degli anni trenta, e dall’altra nella debolezza delle opposizioni, nell’indifferenza, nella condiscendenza, nei quasi espliciti o larvati consensi, con cui quelle campagne e quelle misure erano stati accolti dall’opinione pubblica europea. Non è un caso che diversi stati, già prima dello scoppio della guerra, sentirono il bisogno di mettersi al passo con la Germania (Polonia, Ungheria, Romania, Italia).

Va quindi rilevata l’impregnazione d’antisemitismo nella società europea degli anni trenta, vi sono, infatti, tradizioni politiche autoctone e depositi di lunga durata ostili agli ebrei che spiegano tale situazione e la nascita d’atteggiamenti assunti verso la persecuzione avviata dai nazisti fin dal loro avvento al potere.   

Le radici di tutto ciò vanno ricercate più lontano, non solo nella lunga, secolare tradizione dell’anti ebraismo cristiano, fatto di disprezzo, denigrazione e persecuzione, ma soprattutto e in particolare nel formarsi negli ultimi decenni dell’ottocento di movimenti e partiti che facevano dell’antisemitismo un elemento centrale della loro ideologia e della loro propaganda. Sono protagonisti, da versanti diversi, i nemici dell’ordine esistente, ispirato ad orientamenti liberali, gli ebrei sono visti e in parte si sentono essi stessi simbolo della modernità; negli ultimi decenni dell’ottocento l’antisemitismo è bandiera di tutti i movimenti che sono avversi a quest’ordine, si ritrova nel movimento socialista, in quel nazionalista, nei partiti e nei movimenti cattolici, in diversi paesi come Francia, Austria-Ungheria, Germania, Italia dove la stampa confessionale negli ultimi decenni dell’ottocento scatena una violentissima campagna antiebraica .La campagna antisemita completamente rimossa dalla nostra storiografia, è un fatto Europeo con il fine chiarissimamente espresso di ridare una rinnovata egemonia sociale della Chiesa. Questa prospettiva fallisce con l’affaire Dryfus, in cui i cattolici sono in prima linea e sperano e contano di spezzare la concentrazione repubblicana, in realtà Dreyfus è dimostrato innocente e così l’affaire si risolve con una sconfitta politica, che porta ad un accantonamento della campagna antisemita da parte delle forze politiche cattoliche, accantonamento che non significa revisione, ripensamento, riesame se non in piccole minoranze. Resta la memoria e continua ad operare tale memoria: è significativo che negli anni trenta si sia consapevoli del carattere anticristiano dell’ideologia nazista, e per questo ci si affanna a distinguere tra un antisemitismo lecito, dovere di coscienza d’ogni buon cristiano, e un antisemitismo vietato razzista, quello dei nazisti.  Vi è tuttavia un ampio arco di misure discriminatorie, che ripete quanto per decenni i cattolici, in Germania anche i protestanti, hanno proposto e ancora proponevano.  Non va dimenticato che il congresso della democrazia cristiana di Lione nel 1896 propose l’abolizione dell’emancipazione, e nel maggio del 1895 su proposta di due deputati cattolici la camera francese respinse il ritiro dell’emancipazione, in altre parole il ritorno alla situazione protetta, con 299 contro 206; in Civiltà cattolica poi, il 16 luglio 1938, padre Barbera a proposito delle leggi che si stavano introducendo in Ungheria scrisse: “ L’antisemitismo dei cattolici ungheresi non è l’antisemitismo volgare fanatico né l’antisemitismo razzista, è un movimento di difesa delle tradizioni nazionali e della vera libertà e indipendenza del popolo magiaro.”

In quello stesso anno padre Rosa, una delle figure più eminenti di Civiltà cattolica, recensendo un volume molto antinazista e avverso all’antisemitismo nazista, dopo averlo elogiato continua così “ Esagera tuttavia l’autore, troppo immemore delle continuate persecuzioni degli ebrei contro i cristiani, particolarmente contro la chiesa cattolica e dell’alleanza loro con i massoni, con i socialisti e con altri partiti anticristiani, esagera troppo quando conchiude che sarebbe “non solo illogico e antistorico ma un vero tradimento morale se oggidì il cristianesimo non si prendesse cura della sorte degli ebrei”, né si può dimenticare che gli ebrei medesimi hanno richiamato in ogni tempo e richiamano tuttora su di sé le giuste avversioni dei popoli con i loro soprusi troppo frequenti e con l’odio verso la Chiesa medesima, la sua religione e la sua Chiesa cattolica.”

E’ un capitolo complesso, in parte ancora da ricostruire, non c’è dubbio che né la chiesa né i cattolici, salvo rare eccezioni, siano promotori e protagonisti di campagne antisemite degli anni trenta. La speranza poi di fare di tale campagna un volano per un ampio ritorno sotto le ali della Chiesa è caduta. Resta la memoria di tante proposte fatte, restano i giudizi sugli ebrei e sul loro ruolo nella storia e nella società che in qualche modo s’incontrano con le misure di discriminazione avviate dai nazisti.

In questo sta una prima difficoltà per la Chiesa a scendere in campo a difesa degli ebrei perseguitati dai nazisti. Certo non c’è dubbio che soprattutto in Germania la chiesa cattolica si senta fortemente minacciata essa stessa, è in corso una persecuzione religiosa contro la chiesa cattolica, ma non si tratta solo di questo.

Ritornando all’operazione eutanasia, l’operazione T4 di eliminazione degli ammalati mentali e degli handicappati, erano tedeschi “volksgnussen” compatrioti, che erano uccisi e quindi i vescovi scendono in campo, monsignor ……………….Vescovo di ……………pronuncia nell’aprile –maggio nel 1941 tre omelie pubbliche e con lui altri, determinano il blocco o per lo meno un fortissimo rallentamento dell’eliminazione degli ammalati mentali, vi è una spinta di solidarietà ad intervenire per i propri “volksgmussen” che per gli ebrei non opera.

Non si può nemmeno tirare in campo soltanto il terrore poliziesco, che certamente c’era, ci sono singoli e piccoli gruppi che aiutano gli ebrei, ci sono casi d’esecuzioni capitali nei confronti di cattolici, protestanti, cristiani, per l’aiuto prestato; il nazismo però temeva l’opinione pubblica, temeva, soprattutto nel corso della guerra, il crearsi d’opposizioni interne.C’è un episodio molto indicativo a questo riguardo: l’ultima gran razzia d’ebrei berlinesi avviene alla fine del marzo 1943, si fa una razzia di un gruppo di 6000-7000 ebrei impiegati nell’industria bellica, per deportarli verso est, alcune centinaia di questi erano sposate con donne cristiane. Queste donne attendono fuori della ……………………….per una settimana finché non ottengono la liberazione dei loro mariti. Ci sono episodi quindi che mostrano come delle forme, seppur marginali di resistenza e d’opposizione erano possibili.

Si parla di persecuzione, d’emarginazione sociale, d’espulsione dalla società degli ebrei, si ricostruiscono, è vero, difficoltà e sofferenze, però vi sono aspetti che tendono ad essere dimenticati. Si dice ebrei e, anche senza volerlo, si pensa a dei diversi, che sono messi da parte, ma non è così, né in Germania, né in Francia, né in Italia, è la persecuzione che crea il diverso stacca, incide lacera qualcosa che era ben radicato, incluso nella società d’appartenenza. Gli ebrei occidentali erano tutti profondamente assimilati ed integrati, lo erano in genere quanti erano rimasti religiosi, legati alla comunità, e lo erano quanti restavano legati alla comunità per affezione di una memoria e lo erano quanti dell’ebraismo si erano completamente staccati.Victor Klempen non rinnega le sue radici, ma non si riconosce più ebreo, “Se lo facessi - scrisse – darei ragione al razzismo dei nazisti; e Jean Amery (Hans Mayer) in questo straordinario libretto, male tradotto in italiano con Italiani ad Auschwitz, ricorda “. Quel milione di contemporanei e lui erano fra quelli, sui quali l’essere ebrei calò all’improvviso, al pari di un cataclisma, che deve farvi fronte senza Dio, senza storia, senza speranza d’ordine messianico nazionale. Bisognerebbe ripercorrere le decine di testimonianze, di percorsi individuali che ci sono rimasti, campione rappresentativo delle migliaia e migliaia che non hanno lasciato traccia: un trauma che segnò per tanti una morte civile, una morte culturale, prima ancora della morte fisica. Hans Mayer fin dalle leggi di Norimberga capisce che è finita, rompe con la Germania e la cultura tedesca che è la sua, e diventa Jean Amery: continua poi a dire: “Con gli ebrei in quanto ebrei non condivido quasi nulla: non la lingua, non la tradizione culturale, non i ricordi d’infanzia” anche se ciò non impedisce d’essere solidale con tutti gli ebrei minacciati di questo mondo.

Vi sono poi, e sono tanti, coloro che riscoprono la propria nazione e la propria lingua e ritornano alle radici, diventando sionisti.  Ve ne sono altri , come una ragazza figlia di un caduto della grande guerra, esclusa dalle associazioni studentesche, che scrive al Reichsführer degli studenti il 16 novembre 1933 : “Succeda quel che succeda, non ci si potrà mai strappare il nostro sentimento d’appartenenza alla Germania, non possiamo altrimenti, noi siamo tedeschi“ e non a caso, già esclusi dalla vita culturale tedesca, gli ebrei tedeschi raccolti nella Yüdiche                       ,associazione culturale tedesca, vollero inaugurare la loro stagione teatrale con Nathen der Weisi  (Natan il saggio) di Lessing  , manifesto di un ideale e di un modello culturale opposto al nazismo, che pur affondavano nella cultura tedesca le  proprie radici. Edith Stein negli stessi mesi in cui scriveva a Pio XI sollecitandolo a pubblicare una pastorale contro il semitismo, in procinto di entrare nel carmelo di Colonia, inizia a scrivere la storia della sua famiglia, per opporre ai nazisti una più autentica immagine dell’ebraismo. Ricorda anche che sua madre, persona molto religiosa , non riusciva a capacitarsi che qualcuno potesse discutere la sua appartenenza alla Germania .

Ancora due aspetti sono fondamentali : i caratteri d’unicità che la Shoah presenta anche rispetto alla sequela di massacri di massa che punteggiano la storia dell’umanità, e il significato delle tendenze revisionistiche o negazioniste che variamente cercano di negare la realtà e la portata.

Tre sono gli aspetti per i quali per i quali si deve parlare dell’unicità della Shoah. In primo luogo per il fatto di essere il frutto compatto di un ‘ ideologia, di un ‘ ideologia di morte, che ha lo sterminio come suo esito naturale e sbocco coerente.

In secondo luogo per gli strumenti messi in campo per tale operazione. Campi per eliminare  i propri avversari politici o per sfruttare fino all’inedia il lavoro schiavo sono esistiti altrove, basti ricordare i campi staliniani della Russia sovietica. Sono prerogativa del III Reich i campi esclusivamente destinati allo sterminio,delle vere e proprie fabbriche di morte.

  In fine per essere riusciti a spersonalizzare i portatori di morte, per aver reso in qualche modo anonimo e impersonale l’assassinio, un ‘ opera per la quale e intorno alla quale erano in tanti ad operare, ma nessuno o pochissimi in modo esclusivo, diretto e decisivo. Non è un caso che nel processo d’Auschwitz gli avvocati difensori, che difendevano i medici e i militi delle SS ,parlarono di “salvatori d’ebrei”, perché sulle rampe ne salvarono un certo numero dall’invio immediato alle camere a gas .Questo sofisma giuridico conferma, però, il ruolo in qualche modo sgravante che la pianificazione dell'assassinio mediante camere a gas volle rappresentare rispetto ai metodi più diretti delle fucilazioni indiscriminate di massa.    Alla responsabilità personale, gli atti personalmente compiuti, viene in qualche modo sostituito l’anonimato di un “sistema”, perchè l’opera , gran parte dell’opera era un ‘organizzazione complessiva a compierla e ciascuno si poteva sentire così in qualche modo sottratto ad una responsabilità diretta, semplice rotella secondaria di un ingranaggio che operava anonimamente e in ogni caso , secondo gli ordini superiori .

Le tendenze revisioniste –negazioniste sono molto diverse tra loro e salvo eccezioni vanno nettamente distinte. Dei negazionisti non meriterebbe parlarne, nel senso che non merita parlarne in sede storiografica di ricerca storica; va però smascherata e denunciata la duplice operazione ideologico propagandistica che cercano di realizzare. Da una parte sgravare i nazisti e i loro alleati di una macchia che è loro e loro soltanto: lo sterminio sistematico e pianificato di un intero popolo solo pershè è quel popolo o come tale identificato. Dall’altra rilanciare su  larga scala l’antisemitismo ,se la Shoah non fosse esistita è evidente che sarebbe frutto di una colossale macchinazione ,di una nuova cospirazione ebraica realizzata per acquisire di fronte al mondo diritti e pretese altrimenti improponibili.  Vi sono poi quelli che tendono a sminuirne la portata, non sono assimilabili ai primi, sono posizioni diverse e variamente motivate; frutto di sordità e talvolta  di protagonismo .va tenuto presente però che possono anche corrispondere a una reazione sbagliata, all’uso ritualistico, banalizzante e strumentale che della memoria dell’antisemitismo e della Shoah si insinua e si manifesta qua e là a coprire iniziative politiche che poco o nulla con quella memoria hanno a che fare. Vidal Naquet l’ha denunciato da tempo per lo stato d’Israele. Confesso che alcune commemorazioni del sessantennio delle commemorazioni nazistiche, quale si è svolto lo scorso anno da noi, mi hanno fatto un ‘ impressione penosa, non solo per la loro affrettata sciatteria, per l ‘ aria che avevano di voler mostrare a sé e agli altri quanto si è bravi, democratici e mille miglia lontani dal poter correre il rischio di ripercorrere analoghe strade ,ma anche per l’idea che vi affiorava che con quel passato tutti i conti erano ormai collettivamente chiusi, e si poteva guardarlo per dir così con distacco, tenendosi per mano. Personalmente non credo che sia così, perché quelle vicende non hanno determinato nella nostra cultura, nei nostri nei nostri modi di essere e di pensare e quindi nelle nostre istituzioni formative, come nella pratica del lavoro umanistico, quel mutamento di atteggiamenti che la loro enormità avrebbe richiesto.

Per quanto riguarda la storiografia della Shoah c’è una bibliografia  imponente e cresce ogni giorno di più, così come imponente è la letteratura memorialitica, opera di sopravvissuti, scritta e orale. All’indomani della fine della prima guerra mondiale il silenzio che accolse la visione dei campi di concentramento, portò tendenzialmente a confondere lo sterminio degli ebrei tra i milioni degli altri morti provocati dalla ferocia nazista e dalla ferocia stessa della guerra, cui gli avversari dei nazisti non erano rimasti estranei. Già nel corso degli anni cinquanta alcune voci reagirono a tale tendenza , mettendo in luce la specificità dello sterminio degli ebrei (il Bréviain de la Hain di Lion Poliahov è del 1951 e “The find solution” di Gerald Reithingen del 1953), solo con gli anni sessanta la Shoah,  chiamata olocausto, divenne oggetto di una storiografia specifica e di centri specializzati per la raccolta dei materiali per la ricerca, ma anche di dibattiti più ampi (“Nostra aetate” del Vaticano II ,

A questi bisogna aggiungere il film “Shoah” di Claude Lantzmann del 1985, che Vadal Naquet definì l’unica opera importante di storia sullo sterminio prodotto in Francia, che mostra attraverso immagini del presente come luoghi memoria siano recuperabili, decodificabili quando la recezione non è meramente passiva.

Potremmo dire che sul come tutto ciò avvenne si sa ormai molto con un progressivo allargamento della prospettiva anche a nuovi responsabili. Nessuno mette certo in dubbio la responsabilità principale dei nazisti, dei tedeschi impegnati nel nazismo, ma accanto alle SS si è messa sempre più in luce la responsabilità della Wehrmacht, l’esercito. Il libro di Bromming “Uomini comuni” è la storia di un battaglione di riservisti, uomini assolutamente comuni, nemmeno particolarmente coinvolti nel partito, che è impegnato a ripulire i villaggi russi e fa capire come questi uomini possano diventare assassini sistematici. Per l’Italia illuminante fino a un certo punto è l’ampio collaborazionismo allo sterminio offerto dalla Repubblica Sociale Italiana, il recente libro di Luigi Canapini “La Repubblica delle camicie nere” dà ampie informazioni al riguardo. Tuttavia sul perché tutto ciò sia potuto accadere resta ancora molto da dire e da cercare di capire, così come tutto o quasi resta a dire sulle conseguenze più o meno sotterranee che quella vicenda ha avuto per i resti dell’ebraismo europeo, per lo stato di’ Israele, per la politica mediorientale delle grandi potenze d’Europa.

 Di là di ciò vi è un’altra questione che costantemente accompagna questo sviluppo e questa crescita di conoscenza, l’impadronirsi quasi della Shoah da parte della storiografia accademica, universitaria, in ogni caso canonizzata in una serie di regole e di criteri da tempo precisamente definiti: è la crescente diffidenza dei sopravvissuti, di una parte dei sopravvissuti, per tale impadronirsi della Shoah da parte della storiografia, come se l’entrata in campo degli studiosi comportasse una sorta di normalizzazione e banalizzazione della Shoah e di tutto ciò che l’aveva preceduta.

Vi sono pagine di Jean Amery, durissime e straordinariamente esplicite al riguardo: “L’antisemitismo e la questione ebraica in quanto fenomeni storici, socialmente determinati spirituali, non mi riguardavano e non mi riguardano. Sono in tutto e per tutto problema degli antisemiti, sono la loro vergogna e la loro malattia. Erano gli antisemiti a dover superare il proprio atteggiamento, non io. Farei il loro sporco gioco se volessi esaminare quanta parte ebbero i fattori religiosi, economici e d’altro tipo nella persecuzione degli ebrei. Se mi facessi carico di una simile analisi non farei che accettare l’inganno intellettuale della cosiddetta oggettività storica, secondo la quale gli assassinati sono colpevoli quanto, se non addirittura più, degli assassini. Mi è stato inferta una ferita. Ho il dovere di disinfettarmi e di fasciarmi, non di riflettere sul perché l’aguzzino abbia alzato la mazza, non di comprendere i suoi motivi e di arrivare quasi a discolparli.”  E nell’introduzione del 1976 aveva scritto: “Far luce in modo definitivo significherebbe ……….liquidare, archiviare i fatti per poterli allegare agli atti della storia” e aveva dichiarato la sua ribellione “contro un presente che congela storicamente l’incomprensibile e così facendo lo falsa in maniera vergognosa”

Claude Lausmann, dando testimonianza del lungo lavoro compiuto per la composizione del film “Shoah”, non diversamente ha osservato: “Dopo dieci anni di lavoro, comprendo meglio le cose, il “come” dello sterminio. Quanto al “perché”, credo sia necessario soprattutto non porre la questione. Si comincia con spiegazione d’ordine economico, marxista, psicoanalitico, lo spirito ebraico opposto allo spirito tedesco, ecc., e si finisce per dar vita armoniosamente al massacro: e tutto ciò non è stato per niente armonioso. A colpo sicuro: bisognava ben odiare gli ebrei per ammazzarli in quel modo, ma ad un dato momento vi è un salto, vi è un abisso, e si pensa all’omicidio di massa”.

Citazione di questo tipo, d’Elie Wiesel, Dora Levin, e si potrebbero moltiplicare. Costituiscono la denuncia di un pericolo reale, di banalizzazione, trivializzazione, normalizzazione della Shoah, che la proliferazione stessa di scritti al riguardo, storici e no, rischia di produrre. Affermando d’altre parte l’irriducibilità della Shoah a qualsiasi tentativo di spiegazione esauriente e unidimensionale, denunciano l’astratta e sterile supponenza di una storiografia che ha preteso di appiattire alla razionalità del proprio approccio e del proprio metodo, la crudeltà, la sofferenza reale di cui è fatta la storia. L’enormità unica dello sterminio svela i limiti che condizionano strutturalmente e costantemente le nostre possibilità di comprensione e di spiegazione delle azioni e delle vicende degli uomini.

Ma in quella diffidenza e in quella denuncia non vi è solo questo. Perché esse corrispondono anche ad un‘idea dello studio della storia e della ricerca storica, peraltro comune e canonizzata, che pretendono uno studio e una ricerca condotta con superiore ed equanime distacco (“sine ira et studio”), quasi a confermare l’antico detto che “comprendere significa perdonare”. E’ questo cui Amery si ribella, quando si rifiuta di accettare “l’inganno intellettuale della cosiddetta oggettività storica”, quando rifiuta di comprendere i motivi degli assassini perché così si arriverebbe “quasi a discolparli”         Ed è ancora questo che Lanzman denuncia, quando paventa che a forza di spiegazioni si finisce “per dar vita armoniosamente al massacro”.

A questo punto si può chiedersi se sia proprio secondo quei canoni, esclusivamente secondo quei canoni, che la ricerca storica deve essere costruita, che lo studio della storia deve esser condotto, o non è piuttosto la Shoah che per la sua stessa enormità svela i limiti di una concezione e di una prassi di ricerca, limiti che non sono tali solo con riferimento alla Shoah, perché investono e mettono in discussione un intero costume intellettuale.

Nel corso dello stesso colloquio che ha registrato l’intervista di Lanzmann, Henry Bulanko, presidente dell’Amical des anciens déportés et résistants Juifs de Frace, ha espresso la convinzione che “ ci manchi il distacco necessario per lasciare che la storia obiettivizzi” un avvenimento come lo sterminio. “Essa deve tenere ancora conto –diceva – di ciò che certi chiameranno la passione, altri la sensibilità”. Bulanko non è uno storico, ma riproduce nello studio della storia l’immagine canonizzata, che la vede distaccata, obiettiva ed obiettivizzante. Un’operazione ancora impossibile, egli osserva, perché la passione e la sensibilità, parlando e scrivendo delle persecuzioni ebraiche e della Shoah possono entrare tuttora in campo. E' proprio in questo “ora non può che essere così, ” “ più avanti però sarà altrimenti” che sta il vero nodo della questione.

E’ un luogo comune di buon senso, che traduce l’esperienza psicologica dei più, che il tempo rimargini le ferite e “allontani “dal passato. Dieci vent’anni dopo, la sofferenza lacerante inferta da un grande dolore resta ben fermo nella memoria, ma come lontana, attutita, priva della sua carica bruciante. Da questo punto di vista il tempo storico riproduce su scala amplificata, nel succedersi    delle generazioni, un processo che trova la sua prima attuazione nell’esperienza e nella vita individuale di ciascuno. Se, e in che misura ciò possa avvenire realmente anche ai pochi scampati ai campi di sterminio è questione su cui essi soltanto hanno il diritto di pronunciarsi.

Ma in linea di principio ci si può chiedere se l’atteggiamento dello studioso di storia verso l'oggetto della propria ricerca debba corrispondere alle regole e ai ritmi psicologici della vita quotidiana, debba sottostare anch’esso, in una scelta sostanzialmente inconsapevole, ai processi determinati da meccanismi involontari e da un accumulo di sensazioni e d’esperienze prodotto dal mero vivere dell’uomo nel corso di un tempo dato. Ci si può chiedere cioè se il ricorso all’analisi razionale e ai metodi e agli strumenti richiesti da un corretto studio della storia debba comportare o pretendere un tipo di distacco che non è frutto della scelta consapevole di compiere freddamente il proprio mestiere, come scrisse Lanzmann illustrando il lavoro da lui compiuto, ma che nasce da un estraniamento sostanzialmente passivo, capace per questo attutire e ottundere passioni e sensibilità.

Non ci si può chiedere se non sia condizione necessaria, per un impegno di comprensione reale, reagire ed opporsi a tal estraniamento quando esso si sia ormai determinato, recuperando quella partecipazione affettiva e fantastica, quell’interesse vero e profondo, che rappresentano credo, una premessa ineliminabile ad un lavoro storico. Può esservi passione e coinvolgimento quando si parli o si scriva d’uomini e donne, siano pur essi del passato. Il “de re nostra agitur”, non è una divisa di comodo dello studioso di storia. Non posso e non debbo pensare allo sterminio in una condizione psicologica pacificata. Mi domando se tale “pacificazione”, in quei termini e in quegli esiti, non sia essa, in quanto tale, intimamente contraddittoria al corretto modo di essere e ai compiti dello studioso di storia, non sia , vorrei dire illegittima e produttrice soltanto di risultati negativi. ' impegno al discernimento razionale dei fatti e delle situazioni non significa né implica estraneità o indifferenza. Da questo punto di vista credo sia difficile non riconoscere che una certa “serenità” dello storico, tanto rivendicato da una lunga tradizione storiografica, sfiora a volte l’impudenza intellettuale: non nasce da uno sforzo di penetrazione e comprensione reali , ma piuttosto da sordità e astrattezza intellettuale. Non condivido perciò ,e mi sembra più che mai improponibile, l’idea dello storico che contempla “sereno” da un suo improbabile empireo il frenetico agitarsi degli uomini. Considerata in questa prospettiva, l’unicità e l’enormità della Shoah, incide nel profondo sulla consapevolezza del lavoro storiografico, svela e propone una condizione che richiama lo studioso alle sue responsabilità nei confronti degli ottundimenti e degli appiattimenti come delle deformazioni della memoria storica collettiva.

Il discorso andrebbe a questo punto allargato: perché riguarda un modo diffuso di studiare la storia, spesso così parcellizzato e tecnicizzato da diventare totalmente asettico, come il nostro modo di insegnarla e di divulgarla. Per evitare possibili equivoci aggiungerò alcune brevi precisazioni.

Criticando il distacco e l’indifferenza di una certa tradizione storiografica non intendo proporre una storiografia moralista o processuale. Sono persuaso che l’unica lezione di moralità che va riconosciuta alla ricerca storica sta nel suo impegno a capire, capire realmente, dall’interno, le opere e le azioni umane, senza sopraffazioni o deformazioni dettate dai nostri orientamenti o dalla volontà di trasmettere segnali e messaggi. Ciò non significa cercare “giustificazioni”, così come comprendere, contrariamente a quanto pretende il vecchio detto, non sempre significa perdonare.  Sono anche persuaso che l’indignazione morale, necessaria più che mai al dibattito d’oggi, poco serve per affrontare e capire le aberrazioni del passato né basta per premunirsi dal loro proporsi in altre forme nel presente. Senza avere troppe illusioni sulla sua efficacia e sulla sua capacità di incidere, altro è il compito della storiografia. Ricevendo gli studiosi riuniti per un convegno sull’inquisizione organizzato dalla commissione teologico-storica per il giubileo del 2000, Giovanni Paolo II ha chiesto loro di chiarire i fatti del passato, precisando però che non è compito dello storico formulare un giudizio etico su quei fatti. Si può essere d’accordo: se per giudizio etico s’intende in primo luogo un giudizio sulle intenzioni profonde, non è la formulazione di tale giudizio che rientra nello specifico campo dello studio della storia. Si deve aggiungere, anche, che compito dello studioso di storia, fa parte integrante del suo lavoro, pur con tutti i limiti e i condizionamenti che si porta dietro, formulare un giudizio storico sugli uomini, i fatti e le vicende del passato, capire e valutare le ricadute e gli esiti che le loro scelte, come quei fatti e quelle vicende, hanno avuto sulla vita degli altri uomini, il ruolo svolto nell’orientare in un senso o nell’altra condizione, processi, persistenze e mutamenti nella vita quotidiana e nei rapporti sociali. E’ un aspetto questo da non dimenticare, in anni come questi di revisionismi affrettati e di “ pacificazioni”, che troppo disinvoltamente pretendono di ritrovare nel passato la loro giustificazione. A volte si parla anche di “purificazione della memoria”. Non sempre capisco ciò che con questo s’intende. Ciò di cui sono certi è che tale “purificazione” non può mirare a liberarsi dal peso di un passato che si vorrebbe non fosse, ma solo a guardarlo con occhi di verità, ad assumerlo per quello che è stato. E’ questo il servizio che gli studiosi di storia dovrebbero assumere nei confronti della società.  Non mi pare che sia propriamente questo che le istituzioni pubbliche vengono loro chiedendo.

 

 

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